Confessioni di un maestro clandestino
La prima cosa che è bene sappiate è che non ho il titolo per parlarvi di educazione . Non ho frequentato il liceo delle scienze sociali e neanche nessuna delle facoltà che m’avrebbero potuto consegnare il titolo da maestro. La seconda cosa che vi devo proprio dire è che lo farò lo stesso e che mi sento molto fortunato ad aver appreso tutto quel poco che so di infanzia fuori da un cammino tracciato da altri .Altri, magari, con cui risulta difficile conoscersi, intessere una relazione profonda, e che probabilmente non mi avrebbero mai chiesto “come ti senti ? “ o “ “ cosa ti appassiona”. E così nessuno mi ha mai obbligato a leggere un libro che non mi facesse appassionare e nessuno mi ha mai impedito di fare esperienze perché fuori dal curriculum universitario. Lungi da me dare giudizi sul mondo accademico. Ho la mia opinione, certo, ma fedele alla socratica convinzione di sapere di non sapere ,mi pare saggio evitare di emettere sentenze . Tra l’altro alcune delle persone che amo di più e che più mi hanno insegnato sono proprio docenti universitari ma l’universo ha voluto che li conoscessi fuori da qualsiasi facoltà. Fabrizio * uno di loro, mentre raccontavo con un certo orgoglio alle persone che stavano partecipando ad un seminario da me tenuto che ero un maestro “clan-destino”mi ha dato un discreto e sincero scappellotto che mi ha fatto poi chiaramente capire l’importanza di agire per costruire e non per distruggere. Memore di quel significativo buffetto ho cominciato ad essere orgoglioso non di quello che avevo evitato ma di quello che avevo fatto. Monica un’altra persona per me veramente importante, in un solo secondo, ha smontato tutti i miei pregiudizi sul mondo accademico. Mi aveva invitato a tenere un intervento alla Bicocca e con l’intento di non sentirmi fuori luogo avevo preparato, sudando, delle meravigliose slide. La prima , in grassetto , poneva un quesito : “ Come state ?” , subito dopo avrei preso la parola chiedendo alle studentesse quante volte nel loro percorso scolastico famiglie o docenti avessero loro posto questo interrogativo. Arriva Monica con un dolce sorriso e lo sguardo scintillante e profondo. Introducendo il mio intervento guarda negli occhi contemporaneamente 200 persone e chiede loro “ Come state ?”. E aspetta pure le risposte !!!!. Mi è subito parso evidente che in quello che a me pareva un buio fitto brillassero delle luci meravigliose e così emozionato e felice partendo dalla seconda slide trascorro due ore indimenticabili culminate con un buffet di fine corso in cui Monica mi stupisce ancora. Conosce per nome tutti gli studenti e soprattutto sa di cosa ha bisogno ciascuno di loro ! Si mette a distribuire sorrisi , a donare sinceri abbracci, pone domande e ascolta. Ascolta molto Monica e saluta tutti rimandandoli al consueto viaggio che fanno insieme ogni anno per scoprire progetti educativi interessanti sparsi per tutta Italia. Nonostante questo mi sento molto fortunato ad aver percorso strade altre rispetto a quelle dettate da un rigido percorso di laurea. I libri che ho letto, li ho scelti seguendo la mia passione e fanno parte di me. Sono andato a curiosare solo in spazi dove il mio cuore batteva forte. Ho studiato perché sapevo che quelle conoscenze mi sarebbero servite e perché mi piaceva, non ho studiato in vista di un voto o per far contenti mamma,papà e i prof. . E sono felice di poter condividere quello che ho appreso in tali circostanze e quello che diversi studi certificano ormai chiaramente: apprendiamo se ci appassioniamo!
E io dell’educazione mi sono proprio innamorato perché osservare le bambine mi ha permesso di vedere con delle lenti speciali, filtri preziosi che quotidianamente mi mostrano la bellezza della vita e la ricchezza dell’essere umano e della sua mamma, che qualcuno chiama natura, qualcun altro universo o Dio o Signore e che a me piace chiamare PachaMama. Sotto casa mia lo chiamavamo “Roscio” quasi a evidenziare l’intimità che crea con le persone umili e che di sicuro certifica che dove sono cresciuto io , nella periferia estrema di Ostia, periferia estrema di Roma, non amiamo gli inutili formalismi . Per questo motivo ogni tanto leggerete parole o frasi in romanesco, perché quel linguaggio parla il mio cuore e quando parla il cuore non sono salutari filtri di alcun genere.
Non credo di essermi trovato per caso in mezzo alle bambine, credo e sento che questo era ciò che doveva accadere anche se le circostanze che mi ci hanno portato sono state apparentemente casuali e sicuramente buffe e bizzarre.
Ho frequentato il liceo classico “Anco Marzio “ di Ostia e questo per me nel mio quartiere era motivo di vanto. L’esperienza fu di quelle importanti :studiare l’essere umano, la sua anima dispiegarsi nella storia e manifestarsi nell’arte dovrebbe essere un privilegio offerto a tutti. Finito il liceo non avevo per nulla capito cosa volessi fare da grande, cosa mi piacesse realmente e quale fosse il mio talento. Non vi sembri mancanza d’umiltà che è una di quelle colpe che mi ferirebbe molto. Penso che ciascuno di noi di talento ne abbia uno e dopo aver lavorato con migliaia di bambini la considero una delle poche certezze che ho. All’epoca sapevo benissimo che mi piaceva il calcio e che le donne scatenavano in me reazioni chimiche piacevoli. E così decido di iscrivermi a giurisprudenza dove non sapevo bene cosa avrei trovato se non appunto molte femmine. Da buon bravo ragazzo che aveva una fama da difendere in famiglia e nel quartiere faccio un bel numero di esami fino a che la mia carriera universitaria non mi mise davanti all’obbligo di fare un esame che proprio non volevo fare . Diritto Privato , un “mattone” di quelli enormi, era propedeutico a qualsiasi altro esame di giurisprudenza oltre a quelli già fatti. Almeno credevo. Uno dei miei amici dell’università, uno di quelli che era nato con la laurea in tasca, quasi per dotazione genetica, uno che non va in giro senza almeno tre manuali nello zaino mi segnala che in realtà avevo un’altra carta da giocarmi. Potevo infatti scegliere due esami in altre facoltà e così felice di posticipare quello che consideravo un ingiusto castigo, decido di fare “Storia delle dottrine politiche” presso la facoltà di “Scienze politiche”. Un esame meraviglioso: Socrate, Platone, Aristotele, Erasmo, Tommaso Moro,Campanella, Hegel Kant, Rousseau, Montesquieu,Tocqueville solo alcuni degli autori che mi accompagnarono in quello che fu un viaggio pieno di scoperte ed emozioni. Una delle riflessioni che nacque da queste esame fu intorno al tema della libertà. E cosi libero da qualsiasi condizionamento esterno e fedele a cercare in ogni scelta questa magnifica dote dell’essere umano decido di fermarmi per un po’. Ripongo i libri e decido di fare il servizio civile. Bene , sappiate che in quell’anno chiunque decidesse di intraprendere quella strada poteva contare con certezza quasi assoluta di fare questa esperienza vicino casa. Io apro la cartolina e trovo scritto : Carrara. “E mo’ ‘ndo sta ‘sta Carrara ?”. L’album delle figurine e il calcio in generale, che fino a quel momento erano stati i miei più grandi maestri di geografia, in quel caso non poterono aiutarmi. La Carrarese non era mai andata oltre la serie C e io non avevo approfondito la questione. Scopro che questo territorio devastato fisicamente e moralmente dalle cave di marmo si trova in Toscana al confine con la Liguria. Triste e arrabbiato per la grande ingiustizia che pareva mi fosse toccata salgo sul treno. Ancora non avevo compreso che il “Roscio” spesso dietro a situazioni poco auspicabili ama nascondere grandi tesori. Arrivo in questa polverosa cittadina e mi reco al comune dove qualcuno mi attendeva. Entrato in municipio mi dirigo verso l’ufficio della dirigente che doveva occuparsi di me. Busso, apro la porta, e subito capisco che la ruota stava girando ora per il verso giusto. Lei, la dirigente, famosa per essere severa e tutto d’un pezzo, quando mi vede fatica a mascherare l’emozione. Roberta era romana e non appena sente il mio accento che mal cela le mie origini quasi si commuove. Oltre 30 anni lontani dalla terra natia ci spesso nella condizione di avere in tasca sempre un po’ di nostalgia, e la nostalgia di Roberta uscì subito fuori non appena si senti rispondere alla sua domanda ”Paolo Mai? ”con un sintetico, spontaneo e forse tanto atteso “Ao”. Parliamo un po’, mi confessa che Roma le manca e ci tiene a sottolineare che comunque in questa cittadina della Garfagnana tutto sommato non si vive male. Poi con voce ed espressione del volto tipicamente da mamma mi chiede :” Paolo, cosa ti piacerebbe fare ? Potresti stare qui in comune con me a fare un po’ di segreteria, puoi andare a fare un’esperienza con i Rom, collaborare con la Casa dei diritti e delle culture o andare nel centro di aggregazione giovanile di Ponte Cimato, quartiere malfamato di Carrara. “Mo’ “, precisando che Ponte Cimato rispetto a dove sono cresciuto io è evidentemente un quartiere residenziale, decido di intraprendere quest’ultima strada. Saluto Roberta e subito mi incammino, con la promessa di un’imminente cena insieme anche alla sua famiglia per rievocare i fasti imperiali un po’ sbiaditi della nostra amata capitale.
Finalmente la tristezza lascia il posto ad una più serena curiosità e durante il tragitto che mi conduce alla scuola dove aveva sede il centro di aggregazione la sensazione che stia accadendo qualcosa di bello mi accompagna . Arrivo, salgo le scale che portano all’ufficio dove mi aspettavano le operatrici che seguivano il progetto e incontro un gruppo di bambini che giocavano a biliardino. La mia romanità fu fondamentale in questa circostanza. Noi romani all’epoca, prima di farci inglobare dall’altezzosa serietà così diffusa nel cosiddetto “occidente sviluppato”, portavamo sempre con noi un po’ di allegria , autoironia e leggerezza, e così mi affaccio sul campo da gioco e seccamente nel congedarmi da quella fugace apparizione dico loro senza neanche guardarli “ Siete un po’ scarsini eh ! se volete ve ‘nsegno du’ cosette”. Il loro sguardo stupito con un sorriso disegnato sul volto fu veramente molto buffo. Mi allontano borioso, entro nella stanza e dopo una breve chiacchierata in cui mi viene illustrato il progetto apro la porta per uscire. Loro erano li, facce sorridenti che mi aspettavano curiose e atteggiamento di sfida. In coro mi dicono “ e dai facci vedere quello che sai fare ! “. Rido anch’io e li ammonisco”Sete pronti a fa’ ‘na figuraccia ?”. La partita inizia e subito i ragazzi si accorgono che non scherzavo. Anni e anni di bisca* passate in interminabili partite a qualcosa erano servite, oltre a garantirmi pomeriggi divertenti a costruire relazioni. La gara finisce 9-0 e li costringo come era abitudine sotto casa mia in caso di cappottone* a passare sotto il biliardino. Li saluto dicendo loro “ A biliardino c’avete tanto da lavorà ma spero che col calcio ve la caviate meglio. Ci vediamo domani che voglio verificare”.
Fu l’inizio di un anno memorabile e ricco di relazioni significative in cui il cuore mi indicò chiaramente la strada da seguire: lavorare con le bambine. Quando ero con loro batteva forte e subito mi accorsi che anche loro si sentivano bene quando eravamo insieme. Sapete il cuore è un consigliere tanto saggio ma ama indicare strade in salita e per me non fu per niente facile seguire le sue chiare indicazioni. La ragione mi diceva “Paolo ! non puoi buttare 3 anni di studio! Non puoi dare questo dispiacere ai tuoi genitori!” . Dire ai miei genitori che avrei lasciato l’università per inseguire un sogno fu veramente difficile. Nel mio quartiere laurearsi era un privilegio riservato a pochi e loro, un’umile casalinga e un laborioso operaio, già sotto casa si vantavano con gli abitanti del quartiere del figlio che si stava per laureare. Per una settimana consecutiva andai a parlare col mare , da lui sono sempre stato solito andare a cercare risposte e a confessare le mie più intime emozioni. Dopo giorni di silenzio lui mi urlò chiaramente “ Butta quel libro e comincia a gioca’” ( anche quel pezzo di mare parlava romano ). E così feci, comunicai la notizia ai miei che col groppo in gola mi dissero “Fai quello che ti senti, per noi è importante solo che tu sia felice “. E così inizio ufficialmente questo nuovo cammino ma non prima che l’universo rafforzasse la mia scelta. Decido di fare un viaggio da solo rattristato da una grande delusione amorosa e parto con destinazione Porto Alegre, città del Sud del Brasile dove si svolgeva il “Forum Sociale Intercontintale “. Un appuntamento tanto desiderato dove si incontravano tanti uomini e donne che in diversi “pezzi di mondo”si battevano per i diritti civili, per difendere l’ambiente e tutti i maltrattati del pianeta. Arrivo all’ “Acampamientos de la joventud” dove migliaia di tende colorate disegnavano un paesaggio suggestivo. Mi accingo a montare la mia tenda ma mi mancava il martello per piantare i picchetti. Chiedo al mio vicino e guarda un po’ era un maestro uruguaiano. Neanche lui aveva il martello allora insieme ci avviciniamo ad un gruppo di tende vicine disposte in cerchio, ci si avvicina Joseph William che ci si avvicina con un sorriso e un registratore. Mi guarda e mi chiede in portoghese “ Come riusciamo a fare del mondo un posto migliore”, senza esitazioni rispondo “Basta un po’ d’amore” Mi abbraccia e mi introduce nel cerchio, guarda un po’ composto da tutti studenti e studentesse di pedagogia di Brasilia. Parliamo di scuola e di amore tutta la notte aiutati da Rosa che aveva studiato in Italia e che mi supportava nella traduzione. I segnali si facevano sempre più magici e chiari. Dopo un paio di ore di sonno mi dirigo verso la zona delle conferenze , e nel passeggiare vedo passare un signore di una bellezza sconvolgente. Testa alta, sguardo fiero e felice nonostante le rughe confessassero un passato di sofferenza, Eduardo Galeano mi catturò con la sua aurea magica e potente. Lo seguo,entra in un tendone dove migliaia di persone emozionate lo aspettavano. La sua conferenza fu di una poesia indicibile, tutti piangemmo nel sentire le sue storie, e tutti ci abbracciammo confortati dal suo coraggio. Il titolo della conferenza, guarda un po’ era “Si! Podemos!”. Il resto del viaggio fu altrettanto magico e rincuorante ma poiché il libro sta assumendo la forma di un’autobiografia e questo non è il mio intento, mi fermo qui, nella speranza che continuiate a leggere queste righe e magari a emozionarsi nonostante la mia “clan-destinità”. Finisco solo facendovi notare che la parola clan-destino ha al suo interno due parole “clan” e “destino” che a me piace leggere come l’invito a riconoscere nella socialità e nello stare e fare insieme il destino più nobile di ogni essere umano.
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